giovedì 11 marzo 2010

Tenuta Montelaura : la tradizione dei salumi in Campania




L’Irpinia e la Campania sono legate a doppio filo alla cultura dell’allevamento del maiale. In ogni casa, fino a pochi decenni or sono, nella cucina delle famiglie contadine, dove d’inverno non mancava mai il caminetto acceso, bastava alzare un po’ gli occhi per ammirare ogni ben di Dio appeso alle classiche pertiche di castagno in beata esposizione al fumo che inevitabilmente proveniva dal fuoco acceso ventiquattrore su ventiquattro. E lì c’era da tapparsi immediatamente occhi e naso, specialmente se l’ora era prossima al pranzo o alla cena. I profumi che inondavano l’ambiente erano tali e tanti che non appena il padrone di casa accennava un seppur formale invito alla tavola non ce lo si faceva ripetere due volte e ,rimandando qualsiasi impegno, ci si fermava molto volentieri a pranzo oppure a cena, e qualche volta anche a colazione o per la merenda pomeridiana. Insomma ogni momento era buono per degustare quelle delizie della tradizione . Ma qual è il segreto? Non c’è nessun segreto, se non quello di metterci tanta passione e tantissimo lavoro abbinati al “know how” dei nostri nonni che non dobbiamo mai perdere! Si inizia dalla materia prima e cioè dalle carni , che devono essere di maiali “che hanno mangiato due volte le mele”, come diceva mio nonno. Significa che il lattonzolo(maialino lattante) nato intorno al periodo pasquale, infatti si programmavano gli accoppiamenti per determinare le nascite proprio in quel periodo, arrivava ad ottobre, il mese delle mele, a più di sei mesi, quindi all’altro ottobre a più di un’anno e mezzo: è così che si ottengono animali della stazza di duequintaliemezzo spaccati e pesati!!! La consistenza e la maturazione delle carni rappresentano, quindi, degli elementi imprescindibili per la realizzazione di prodotti di eccellenza. Naturalmente moltissimo dipende anche dalla dieta che questi animali devono seguire . Il principio è quanto più varia è, meglio è. E allora l’uso tradizionale di alimentare i maiali a seconda della disponibilità stagionale è l’architrave della riuscita dei nostri salumi tipici. E così è naturale che a giugno, luglio ed agosto l’alimentazione a base di tritello di grano tenero sia integrata da zucche, zucchine e scarti di verdure; a settembre, ottobre e novembre , sostituendo l’alimento base tritello con farina di mais si integri con mele, ghiande e castagne. Si prosegue poi con il “menù” da ingrasso : Farina di mais e scarti di patate lesse e schiacciate(il cosiddetto pastone). Fondamentale è anche l’uso di cuocere gli alimenti che vengono somministrati ai maiali, questo perché i suini hanno un’apparato digerente abbastanza “approssimativo” nel senso che non riescono a metabolizzare facilmente tutto quello che mangiano e buona parte di ciò se ne va in deiezioni. Ora qualcuno si domanderà : ma quanto costa tutto questo? Sicuramente molto di più di quanto ci potrebbe costare il migliore prodotto industriale DOP, IGP, STP, o di qualsiasi altra sigla si voglia parlare. E sta proprio qui il nocciolo della questione : i disciplinari dovrebbero innanzitutto differenziare i prodotti artigianali da quelli industriali secondo i parametri anzidetti e poi andare a valutare le altre generiche prescrizioni. Non ha senso andare a paragonare un prodotto irripetibile(nel senso che non ci può essere standardizzazione) , ad un prodotto industriale che per quanto buono possa essere, non avrà mai le diverse caratterizzazioni che un prodotto artigianale sicuramente potrà esprimere.

www.tenutamontelaura.it

domenica 7 marzo 2010

Tenuta montelaura rievoca un'antica ricetta :le sarde arrostite


Mi sembra ancora di sentire la voce metallica di Peppiniello ‘o pisciaiuolo, che “si partiva” da Salerno con la bicicletta prima( fino agli anni sessanta), con il trerrote poi (fino ai primi anni ottanta, cioè fino a che c’è l’ha fatta, buonanima), e percorrendo la S.S. 88 o via Due Principati, attraversava tutti i paesi che incontrava dalla provincia di Salerno a quella di Avellino. Ma che portava? Ma che poteva portare sul portapacchi della sua “Girardengo” nera? Si e no due o tre cassettini con il pescato del giorno più economico, perché in quegli anni di miseria era decisiva per l’acquisto la connotazione economica del prodotto offerto in vendita : alici e sarde. Ecco, per gli avellinesi meno abbienti il pesce si identificava esclusivamente in alici e sarde, non potendo permettersi altro e per un minimo di esigenza di variare la pesante alimentazione rurale. La preparazione di questo prodotto, come al solito molto semplice, alla brace, per due motivi : il primo perché non c’era tempo per preparazioni molto elaborate, anche le braccia delle donne servivano in campagna. Il secondo perché fino alla fine degli anni sessanta, e in qualche casa di campagna anche oltre, le cucine a gas non esistevano e l’unico sistema di cottura usato era il fuoco alimentato dalla legna che si raccoglieva dopo la potatura, e quindi la brace. Addette alla preparazione di questo piatto generalmente erano le signorinelle di casa che si occupavano della pulizia della casa e dei pasti, mentre il resto della famiglia era nei campi. Le sarde venivano eviscerate e lavate, ma non decapitate e squamate. Perché si mangiava anche parte della testa e la squamatura non serviva perché a diretto contatto con la brace le squame si bruciano. La cottura rappresentava la parte più impegnativa della preparazione, perché non aveva dei tempi standard infatti essa dipendeva dal tipo di legna che si aveva a disposizione in quel particolare momento. Per esempio la cottura con legna di castagno presupponeva dei tempi più lunghi di quella con legna di quercia(ma chi ce l’aveva!), migliore di quella di castagno era quella di vite, ma non sia mai ti capitava quella di fico, erano dolori o atti di dolore che bisognava recitare come penitenze assegnate per le imprecazioni lanciate. La giusta cottura si individuava dalla capacità di penetrazione della forchetta nelle” carni” e dal colore grigio scuro che assumevano le sarde. Cotte al punto giusto, si procedeva ad immergerle in un sughetto, precedentemente preparato , con olio, aceto di vino, aglio, foglioline di mentuccia selvatica e salvia. Dopo quattro o cinque ore di “riposo”e quindi dopo aver assorbito tali condimenti, di sera al termine della lunga giornata di lavoro nei campi, si mangiavano con gusto felici di assaporare qualcosa di diverso dal solito.

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