domenica 7 marzo 2010

Tenuta montelaura rievoca un'antica ricetta :le sarde arrostite


Mi sembra ancora di sentire la voce metallica di Peppiniello ‘o pisciaiuolo, che “si partiva” da Salerno con la bicicletta prima( fino agli anni sessanta), con il trerrote poi (fino ai primi anni ottanta, cioè fino a che c’è l’ha fatta, buonanima), e percorrendo la S.S. 88 o via Due Principati, attraversava tutti i paesi che incontrava dalla provincia di Salerno a quella di Avellino. Ma che portava? Ma che poteva portare sul portapacchi della sua “Girardengo” nera? Si e no due o tre cassettini con il pescato del giorno più economico, perché in quegli anni di miseria era decisiva per l’acquisto la connotazione economica del prodotto offerto in vendita : alici e sarde. Ecco, per gli avellinesi meno abbienti il pesce si identificava esclusivamente in alici e sarde, non potendo permettersi altro e per un minimo di esigenza di variare la pesante alimentazione rurale. La preparazione di questo prodotto, come al solito molto semplice, alla brace, per due motivi : il primo perché non c’era tempo per preparazioni molto elaborate, anche le braccia delle donne servivano in campagna. Il secondo perché fino alla fine degli anni sessanta, e in qualche casa di campagna anche oltre, le cucine a gas non esistevano e l’unico sistema di cottura usato era il fuoco alimentato dalla legna che si raccoglieva dopo la potatura, e quindi la brace. Addette alla preparazione di questo piatto generalmente erano le signorinelle di casa che si occupavano della pulizia della casa e dei pasti, mentre il resto della famiglia era nei campi. Le sarde venivano eviscerate e lavate, ma non decapitate e squamate. Perché si mangiava anche parte della testa e la squamatura non serviva perché a diretto contatto con la brace le squame si bruciano. La cottura rappresentava la parte più impegnativa della preparazione, perché non aveva dei tempi standard infatti essa dipendeva dal tipo di legna che si aveva a disposizione in quel particolare momento. Per esempio la cottura con legna di castagno presupponeva dei tempi più lunghi di quella con legna di quercia(ma chi ce l’aveva!), migliore di quella di castagno era quella di vite, ma non sia mai ti capitava quella di fico, erano dolori o atti di dolore che bisognava recitare come penitenze assegnate per le imprecazioni lanciate. La giusta cottura si individuava dalla capacità di penetrazione della forchetta nelle” carni” e dal colore grigio scuro che assumevano le sarde. Cotte al punto giusto, si procedeva ad immergerle in un sughetto, precedentemente preparato , con olio, aceto di vino, aglio, foglioline di mentuccia selvatica e salvia. Dopo quattro o cinque ore di “riposo”e quindi dopo aver assorbito tali condimenti, di sera al termine della lunga giornata di lavoro nei campi, si mangiavano con gusto felici di assaporare qualcosa di diverso dal solito.

Ricetta a cura di www.tenutamontelaura.it



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